di Emanuela Melchiorre - 2 maggio 2006
La Cina, per soddisfare il suo crescente fabbisogno energetico, conduce una politica di approvvigionamento di grandi dimensioni che sembra, però, eccedere certi parametri di riferimento come il Pil e la domanda di petrolio, essendo questi dati correlati. I paesi ai quali si rivolge sono retti prevalentemente da regimi dittatoriali e condannati internazionalmente per le loro sistematiche violazioni dei diritti umani. Sono gli stessi dati delle dogane cinesi che confermano la spiccata propensione per le dittature.
Tra i primi dieci esportatori mondiali di petrolio ci sono paesi dove la democrazia è matura, come la Norvegia, il Canada e il Regno Unito. La Cina ha scelto, invece, di approvvigionarsi presso paesi notoriamente non democratici e condannati dall'opinione pubblica internazionale, come l'Angola, l'Iran, il Sudan, il Congo Brazzaville e la Guinea Equatoriale.
La politica di approvvigionamento energetico cinese passa per diverse vie. La Cina non soltanto si rivolge direttamente al mercato, acquistando quantità crescenti di petrolio, ma, per accaparrarsi quote di produzione, attiva diversi canali. Poiché dispone di grande liquidità, Pechino sta investendo generosamente e senza troppi scrupoli nei paesi africani, eleggendo l'Africa a territorio di caccia ideale per i suoi approvvigionamenti. Ultimo in ordine di tempo è l'investimento massiccio che il Dragone ha lanciato in Nigeria. In questo paese ha stanziato quattro miliardi di dollari per la costruzione di varie infrastrutture in cambio di licenze di sfruttamento di giacimenti petroliferi. La Cina acquisterà, inoltre, la quota di controllo della grande raffineria di Kaduna, che attualmente è una struttura inefficiente e non copre ancora il fabbisogno nazionale di benzina. Inoltre, Pechino si impegnerà a costruire una centrale elettrica ed una ferrovia.
Come contropartita di quote di produzione di petrolio, la Cina offre anche armi e «coperture diplomatiche» a diversi paesi, primo fra tutti il Sudan, che è una delle nuove frontiere dell'oro nero, retta da un regime che si macchia di uno dei più gravi crimini contro l'umanità, quello del Darfur. La produzione sudanese ammonta a 500 mila barili al giorno. Grazie al finanziamento cinese, che dal 1990 ha raggiunto la cifra di otto miliardi di dollari, la produzione cresce a ritmi sostenuti, tanto da arrivare a 650 mila barili al giorno. Il 70% delle esportazioni sudanesi sono dirette in Cina, rendendo il paese una sorta di monopsonio energetico, cioè un monopolista dal lato della domanda. In cambio di petrolio, Khartoum chiede discrezione diplomatica, infrastrutture e armamenti. Da tempo la Cina è accusata, infatti, di vendere elicotteri militari, mine e armi leggere, seguendo la cinica logica del «business is business».
Il dossier nucleare iraniano si è trascinato per anni grazie anche alle pressioni e le minacce di veto della Cina e della Russia. Infatti l'Iran, terzo fornitore di petrolio della Cina, costituisce una grande opportunità per Pechino, per la sua posizione geografica e per l'assenza di concorrenza delle compagnie americane dovuta alle sanzioni Usa, e può ottenere quote di produzione in cambio di sostegno diplomatico. Inoltre sono stati siglati intese e contratti miliardari per la fornitura di gas naturale.
L'Angola è da oltre un anno il secondo fornitore di petrolio cinese. Pechino ha concesso un prestito a tasso agevolato di 2,5 miliardi di dollari in cambio di petrolio e garantisce una certa «discrezione» a livello diplomatico. Infatti l'Angola mal tollera le richieste di maggiore trasparenza mosse dal Fondo Monetario Internazionale.
Non stupisce, infine, che in cima alla classifica delle nazioni che approvvigionano la Cina ci sia anche l'Arabia Saudita, che, sebbene sia per alcuni versi filoccidentale, è comunque ascrivibile tra le petrodittature dei nostri tempi.
Emanuela Melchiorre
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