L’argomento del giorno, portato alla ribalta dall’ennesimo caso estremo strumentalizzato dai radicali, sta provocando un nuovo attacco della dittatura relativista nei confronti dei cristiani. Come nel caso del referendum sulla legge 40, vorrebbero farci credere che solo i cattolici siano contrari alla cultura della morte, fortunatamente non è così, non ci sono solo motivazioni religiose per dire no all’eutanasia.La paura della sofferenza è diventata una fobia che attanaglia la nostra società, ma fino a che punto? Fino al gesto estremo di gettarsi da un ponte? Fino al gesto estremo di sparare in testa a chi soffre?
Siamo veramente pronti, con i fatti e non solo a parole, a compiere questi gesti disperati? O forse abbiamo bisogno di immolare sull’altare prima Terry Schiavo e adesso Piergiorgio Welby per riuscire a credere veramente nel “dio ideologico e nichilista” professato dalla setta di Pannella.
I radicali sostengono appunto che il corpo di un malato a cui non è permessa l’eutanasia è come se fosse sequestrato da proprietari diversi da sé stesso. L’errore di fondo di questo ragionamento è che la vita e il corpo non sono “nostri” in ogni caso, che si creda in Dio oppure no, la vita ci è stata comunque donata, il donatore chiamatelo come volete: chiamatelo “Dio”, chiamatela “madre natura”, chiamatelo “caso” oppure chiamatelo “amore di una madre che partorisce con dolore”. Comunque vogliate chiamarlo è pur sempre un immenso dono d’Amore, come tale richiede in cambio il nostro attaccamento alla vita, non si può buttarla via, anche se non rispecchia gli standard esistenziali senza sofferenze che ci eravamo stupidamente imposti.
Non è solo una questione di prospettiva cristiana, dal punto di vista non credente ci sono due diversi modi di vivere la sofferenza: rifiutarla in ogni modo anche rinunciando alla vita stessa, oppure affrontare il dolore cercando di aggrapparsi alla vita fino all’ultimo. Per il cristiano invece il dolore dovrebbe essere qualcosa di diverso, la sofferenza diventa anch’essa un dono, un insegnamento difficile ma efficace per imparare ad amare, il malato infatti riceve amore da chi lo assiste e allo stesso tempo ridona amore in eguale misura. Non è raro sentirsi dire da un infermiere o da un volontario che è più l’amore che ricevono rispetto a quello che danno.Mettiamo queste tre tipologie di reazione al dolore su tre letti vicini in una stanza di ospedale. Il primo non credente si chiuderà in se stesso maledicendo tutto e tutti e lasciandosi morire, il secondo non credente combatterà attaccandosi alla vita, stringendo i denti e cercando conforto nello sguardo amico del terzo che (grazie all’insegnamento cristiano) trasformerà la sofferenza in amore e riuscirà a creare un rapporto di reciproco sostegno con il suo vicino di letto.
Non sforzatevi per capire quale dei tre sia l’atteggiamento ideale, la risposta è scritta in una situazione analoga accaduta realmente 1970 anni fa, dove tre uomini erano bloccati con i loro corpi immobili nella sofferenza, non su tre letti di ospedale, ma su tre croci di legno.



























